La mostra di Vicenza sulla Grande Guerra

Il 26 febbraio scorso chiudeva a Vicenza la mostra “ Ferro, Fuoco, Sangue! Vivere la Grande Guerra”, a cura di Mauro Passarin e con le fotografie in grande formato di Giuliano Francesconi, ma l’eco di questa rassegna, bella e straniante insieme, rimane indelebile grazie al catalogo di Silvana Editoriale che l’accompagna.

Il luogo scelto per la rassegna è stato Palazzo Chiericati, sede della Pinacoteca Civica e Patrimonio mondiale dell’Umanità, uno dei tanti edifici progettati e costruiti dal Palladio in città e dintorni e che, insieme al Teatro Olimpico, consente a Vicenza di attribuirsi il titolo di “Perla del Rinascimento”.

Di Palazzo Chiericati, per l’ambientazione della mostra sono stati utilizzati gli spazi sotterranei, dove già nei secoli XIV e XV erano predisposte le cucine della famiglia patrizia, con annesso pozzo, per cui, tra mattoni a vista, polvere e nicchie sparse, sembrava di trovarsi davvero all’interno di quelle trincee che le prime immagini fotografiche ci hanno tramandato della Grande Guerra.

Dal cuore di Vicenza, circondata da monti diventati celebri quali: Ortigara, Pasubio, Grappa, Cimone, Cengio, e proprio da questi interrati, la mente spazia ai lunghi perimetri di trincee scavate in tutta Europa (stimate in migliaia e migliaia chilometri) e alle cifre spaventose dei morti, nove milioni su 70 milioni di uomini coinvolti, con una media di più di 5700 morti al giorno per i quarantuno mesi del conflitto.

La mostra si dipana proprio dalla fisicità dell’uomo, dell’uomo-soldato postato al fronte, dai suoi bisogni e dalle sue paure, diventando istruttiva e commovente perchè è l’Uomo che fa la storia, e quanto è accaduto resta un monito per le generazioni di oggi e del futuro.

Diverse le sezioni: Fuoco, Rumore, Paura, Fame, Sete, Freddo, Brutalità, Fango, Riparo, Attesa, definite con parole che esprimono tutto quanto può impadronirsi del corpo e dell’animo di un uomo, azzerandolo. Impressionante infatti l’evidente divario tra la semplicità dei soldati e l’uso di tecnologie di guerra avanzate, mitragliatrici, carri armati, gas, artiglierie di grosso calibro.

Le sezioni, scandite dalle fotografie di Francesconi che riprendono gli oggetti in mostra, avvolgenti e perfino crude nella dilatazione delle immagini, si arricchiscono poi di scritti tratti da fonti documentarie e di grande impatto emotivo.

Il commento di quanto accadde, ad opera di Mauro Passarin, accompagna il visitatore, e, con una ricchezza di notizie e dati storici, diventa una rivisitazione struggente della guerra. Qui di seguito alcuni passi.

Dalle sezioni Fuoco e Rumore: “La scenografia delle battaglie nella Grande Guerra si distingueva per l’intensità delle distruzioni, il fragore delle esplosioni, le vampe delle fiamme, l’oppressione delle nuvole di gas. Il cielo e la terra venivano trasformati in una gigantesca bolgia infuocata”. “Il terribile vento degli obici, come fu romanticamente chiamato in Italia, era l’incubo di chiunque fosse schierato in prima linea”.

Da Fame e da Sete: “E la fame è probabilmente la causa principale della fine della guerra; più che della fine si potrebbe forse parlare della sua consunzione. Nelle terre occupate gli austriaci non avevano più nulla da razziare”. Ed ancora: “Il rifornimento idrico delle trincee fu forse il più grande problema affrontato dagli eserciti nella logistica dei rifornimenti”. Per rifornire le zone del Pasubio, punto importante di difesa, ma dal terreno permeabile e privo di sorgenti, si legge, vennero creati impianti azionati da pompe e da motori a benzina.

La neve, il freddo atroce, le valanghe furono nemici più degli avversari. Ecco alcuni stralci da Freddo: “La straordinaria novità del fronte alpino non fu una scelta strategica ma la conseguenza, fin troppo sottovalutata, di una frontiera spartiacque che correva per centinaia di chilometri sopra i 2000 metri e spesso sopra i tre mila, che obbligò gli eserciti ad adattarsi a condizioni di vita estreme”; “La notte tra il 13 e il 14 dicembre 1916, divenuta tristemente famosa come il venerdì bianco, fu apocalittica su tutta la linea del fronte veneto-trentino. La neve aveva cominciato a cadere a metà settembre e da due settimane le tormente avevano accumulato quantità eccezionali su tutti i pendii. L’improvvisa pioggia ed il vento di scirocco provocarono lo scioglimento della coltre con effetti devastanti. Quel giorno circa diecimila alpini e Kaiserjäger furono soffocati e sepolti da enormi masse di neve. La successiva primavera si ritrovavano ancora corpi di soldati congelati con le dita scarnificate fino all’osso, per il vano tentativo di scavare un varco nelle pareti del luogo in cui erano stati sepolti”.

La sezione Brutalità ci racconta gli effetti devastanti dei gas asfissianti, inizio della moderna guerra chimica, usati per la prima volta dai tedeschi in Belgio e da noi il 29 giugno1916 sul monte San Michele, nel Carso isontino, trovando i nostri soldati del tutto impreparati, facendo di essi strage e creando agonie e sofferenze lancinanti nei sopravvissuti… .

Il processo di disumanizzazione andava completandosi con “il massacro sul posto di coloro che si arrendevano, feriti o no, perpetrato da soldati volontari soprannominati gli spazzini della neve”.

In mostra, nel silenzio dei sotterranei i veri protagonisti diventano allora gli oggetti esposti, restituiti dopo decenni dalla terra, testimonianza di quanto è accaduto, un condensato di sofferenze subite e anche procurate, icone di un dolore universale: scarpe chiodate, frammenti di reticolati, proiettili, fucili, maschere antigas, ed ancora borracce, posate costruite in modo rudimentale, coperchi di scatolette di carne,…Oggetti silenziosi e sacri, come sacro è il sangue versato da tutti i soldati di ogni schieramento.

La fine della mostra è suggellato da sequenze del film “Un long dimanche de fiançailles” di Jean-Pierre Jeunet con il brano musicale “Refugees”, Van der Graaf Generator, una melodia senza tempo dedicata ai drammi che l’umanità continua a sperimentare.

Gli artisti delle stagioni a Castell’Arquato

Un saluto a tutti i presenti all’inaugurazione della mostra “I colori e i profumi delle stagioni nell’Arte Contemporanea – primavera”, ai rappresentanti delle Istituzioni, a Stefano Sichel al pubblico ed agli artisti, last but not least, ultimi ma non per importanza, visto che sono loro con le loro opere i veri protagonisti della manifestazione.

E siamo arrivati a compimento di questo tour de force che è iniziato nell’estate 2016. Eccoci con la primavera e con le nuove opere raccolte nella Galleria del Transvisionismo. Un tripudio di colore, di freschezza e di fascino.

Per gli artisti ho scritto i commenti nonché una breve introduzione al catalogo che rimarrà come ricordo e punto fermo di questa esperienza vissuta da tutti noi.

Abbiamo ammirato l’impegno e la crescita di quattordici artisti,(….), ciascuno fedele alla propria identità creativa, tutti insieme raccolti in coacervo di esperienze e di vissuto.

Ed abbiamo apprezzato e, volutamente sintetizzo in un brevi parole:

il rinnovarsi nell’arte di Celestina Avanzini,

i dettagli approfonditi (scrutati) nelle foto di Camilla Biella,

le sfumature poetiche di colore di Alessandra Bisi,

il mistero e le seduzioni della pittura di Maria Gioia dell’Aglio,

la libertà espressiva di Roberto Fenocchi,

la luminosa matericità dei lavori di Cloe Ferrari,

l’esuberante e giovane pittura di Simone Francesco Fichera (una rock art?),

la provata esperienza di Daniela Gilardoni nell’arte vetraria.

Ed ancora:

le appassionate e forti stesure di colore di Vincenzo Gobbi,

il prezioso e raffinato richiamo agli archetipi di Ezio Pinciroli,

la naturalezza espressiva di Gabriella Pozzi,

le atmosfere di luce nei dipinti di Renata Rychlick,

la pittura superba e sicura della realtà di Savino Sardella,

l’armonia che sprigiona pur nella pluralità di icone nelle tele di Marco Valla.

Marco Valla, happy new year

Ora vorrei solo aggiungere solo una riflessione del tutto personale sul fare arte. Quando Sichel mi ha chiesto di scrivere una introduzione-commento al catalogo, di primo acchito ho iniziato scrivendo del ritmo o ritorno delle stagioni. A posteriori, rileggendo l’introduzione, mi sono accorta che queste due parole, giunte per caso, sono importanti perché ci raccontano quanto le stagioni ci coinvolgono nel loro passaggio e quanto noi siamo attori nel loro ripresentarsi o creatori di progettualità nella loro attesa.

Ancora una volta ho pensato (e questo mio pensiero lo trasmetto agli artisti presenti) come i colori o le parole o le forme o le note vivano nello spazio dell’etere (etere, ovvero aria non nei social), ed hanno bisogno di qualcuno che afferri tutto ciò e traduca con gli strumenti di cui dispone e con la capacità che gli è propria, quanto vogliono raccontarci, un sentimento, un ricordo, bello o infelice, la visione di un paesaggio, un tormento, una sofferenza, una ingiustizia sociale, in ultima analisi la vita che ci circonda. Ecco il compito dell’artista, ecco allora che prendono vita e si concretizzano le opere, come quelle che ora qui appaiono in mostra.

Castell’Arquato, 14 maggio 2017